Ho lasciato la magistratura dopo oltre trentatré anni, dopo aver fatto prima il giudice, poi il pubblico ministero, poi di nuovo il giudice. Mi sono dimesso perché indagine dopo indagine, processo dopo processo, sentenza dopo sentenza mi sono convinto che mi sarebbe stato impossibile – da quel momento – contribuire a rendere l’amministrazione della giustizia meno peggio di quel che è. Progressivamente mi sono convinto che, perché la giustizia cambi, sarebbe stato utile piuttosto intensificare quel che già cercavo di fare nei momenti lasciati liberi dalla professione: girare per scuole, università, parrocchie, circoli e in qualunque altro posto mi invitassero a dialogare sui tema delle regole. La giustizia non può funzionare se il rapporto tra i cittadini e le regole è malato, sofferto, segnato dall’incomunicabilità.
Non può funzionare l’amministrazione della giustizia, quel complesso che coinvolge i giudici, i tribunali, le corti, gli avvocati, i pubblici ministeri, le prigioni, le persone sul cui destino tutto ciò incide il più delle volte pesantemente. E non può funzionare la giustizia intesa come punto di riferimento, come base dei rapporti tra gli abitanti del mondo, dispensatrice, prima ancora che verificatrice, di quel che spetta e quel che è tabù, delle possibilità e dei carichi, degli ordini e dei divieti, delle limitazioni e delle libertà.
La giustizia non può funzionare se i cittadini non comprendono il perché delle regole. Se non lo comprendono tendono a eludere le norme, quando le vedono faticose, e a violarle, quando non rispondono alla loro volontà.
Perché la giustizia funzioni è necessario che cambi questo rapporto.
Mi sono dimesso per portare il mio granellino di sabbia sulla strada del cambiamento.
(G. C. Sulle regole)