“Le parole dei giuristi, più di altre, non si limitano a descrivere fatti e comportamenti: li provocano esse stesse. La lingua del diritto è potentemente creativa, poiché genera norme, atti amministrativi, contratti e sentenze: essa, insomma, incide direttamente sulla vita delle persone, modificandola.
Come ogni linguaggio di settore, la lingua del diritto è caratterizzata da una terminologia e da un frasario tecnici, la cui esistenza e il cui uso sono, in qualche misura, necessari. Vi sono, infatti, categorie e concetti che non possono essere espressi e comunicati utilizzando la lingua comune.
E tuttavia, in realtà, il linguaggio dei giuristi è una lingua sacerdotale piuttosto che tecnica, in cui l’oscurità non necessaria è cifra stilistica, negazione del linguaggio e della sua funzione comunicativa e, soprattutto, sottile, iniziatica, autoritaria forma diesercizio del potere.
La lingua gergale dei giuristi, irta di stereotipi, di arcaismi, di circonlocuzioni ridondanti e frasi formulari, caratterizzata dall’abuso delle subordinate (e da una interpretazione a volte spregiudicata della grammatica e della sintassi), volutamente racchiusa entro un perimetro disciplinare, è una lingua iniziatica. Ed è risultato, forma e strumento di un esercizio autoritario del potere.
Nel capitolo 5 («Oscurità delle leggi») del trattato Dei delitti e delle pene, Cesare Beccaria
chiarisce il nesso fra oscurità linguistica ed esercizio del potere. L’oscurità delle leggi, in particolare, è un male: un male che diventa “grandissimo, se le leggi siano scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi”.
L’esercizio del potere attraverso il ricorso al gergo deriva anzitutto da una forma tossica di pigrizia: come ha osservato Salvatore Satta.
Oltre che con la pigrizia, l’abuso del gergo si spiega con il conformismo e, spesso, con la vanità. Periodi involuti e ardui sono infatti esercizi barocchi di acrobazia linguistica, inutili prove di virtuosismo.
L’autocompiacimento è un aspetto forse ineliminabile di qualunque scrittura: ma per scrivere bene — una poesia o una sentenza, un racconto o una relazione — è indispensabile dominare il narcisismo e avere la capacità (e il coraggio) di rimuovere l’inessenziale. Sulle formule raggelate e oscure, sul lessico iniziatico, sulle costruzioni involute e pseudoletterarie, occorre esercitare un controllo inflessibile, senza per questo tentare una illusoria, impossibile semplificazione di tutto e a tutti i costi”.
(Gianrico Carofiglio – La manomissione delle parole).